“Meditate gente, meditate…”

 

Sull’aborto: nell’insegnamento della Chiesa e per tante persone non credenti che riconoscono nell’embrione una vita umana, è sempre una scelta sbagliata, da evitare; certamente resta complesso il modo e lo stile con cui si dovrebbero sostenere e aiutare i genitori – la mamma e anche il papà – con delicatezza e attenzione per una coscienza che,  quando prende in considerazione la scelta dell’aborto, è sempre in un travaglio in cui entrano tanti fattori fisici, sociali e culturali.

Due articoli del quotidiano “Avvenire” commentano due fatti di cronaca che fanno pensare e certamente discutere: perchè non riprendere le considerazioni proposte in un confrono nei gruppi in Parrocchia che lo volessero?

 

Dopo il caso del Flaminio. Bambini abortiti, «vite umane, non spazzatura»

 

 
Antonella Mariani giovedì 8 ottobre 2020
 
Gagliardini: anonimato e rispetto, così curiamo la sepoltura. È una questione di pietà. La legge prescrive che dopo le 20 settimane di gestazione i resti dei bambini si devono seppellire
L’area di un cimitero del Nord Italia dedicata alla sepoltura anonima dei bambini non nati, a cura di Advm

L’area di un cimitero del Nord Italia dedicata alla sepoltura anonima dei bambini non nati, a cura della “Associazione difendere la vita con Maria” (Advm)

 

Da quando l’associazione è nata, nel 1998, ha curato la sepoltura di 300mila bambini mai nati. Aborti spontanei o volontari, a don Maurizio Gagliardini importa poco. Quello che conta è garantire la pietà che ogni essere umano, dopo la morte, merita. Anche se piccolo, anzi, proprio perché il più indifeso di tutti. Il sacerdote 76enne guarda con gli occhi dei suoi anni, della sua fede e della sua esperienza alle polemiche di questi giorni sul Cimitero Flaminio, dove i bambini non nati sono stati incredibilmente sepolti con il nome e il cognome della madre.

Don Maurizio, a Roma c’è stata una palese violazione del diritto alla riservatezza delle madri. Come può essere successo?

La legge prescrive che dopo le 20 settimane di gestazione i resti dei bambini si devono seppellire. L’ospedale San Camillo Forlanini, come è prassi, ha stipulato una convenzione con l’Azienda municipalizzata di Roma per farli confluire al Flaminio. Si indagherà, ma penso che qualcuno abbia pensato di sua iniziativa di aggiungere al codice anche il nome.

Aveva già avuto notizia di questa prassi prima d’ora?

No, mai. Nei cimiteri in cui operiamo mai ci è capitata una prassi analoga. Mai abbiamo inumato bambini con i nomi delle madri.

L’associazione Difendere la Vita con Maria, che lei presiede, ha diverse convenzioni con ospedali e Asl che la autorizzano alla sepoltura dei bambini non nati. Quante e dove?

L’associazione giuridicamente è nata nel 1998 e oggi conta 2.700 associati in diverse regione italiane, con una sessantina di commissioni locali. In 19 regioni abbiamo associati che operano a livello culturale e sociale, con accompagnamento alla vita prenatale. Abbiamo una decina di convenzioni con alcune Regioni – come Lombardia, Piemonte, Liguria, Marche, Basilicata e Puglia –, in altre le stiamo chiudendo.

Ci vuole riassumere cosa prescrive la legge?

La legge prevede che fino alle 20 settimane di gestazione, classificandoli come «resti non riconoscibili», i bambini non nati devono essere smaltiti attraverso l’incenerimento a meno che «i genitori o chi per essi» chiedano di poterli recuperare. Ciò accade molto frequentemente: attraverso il nostro numero verde (800 969 878), attivo 24 ore su 24, in genere i papà o i nonni ci chiedono come fare per riavere i resti del bambino. Se a loro fa piacere, li aiutiamo a svolgere l’iter. Anche a Roma abbiamo svolto spesso questo compito, accompagnando al Cimitero Laurentino diverse famiglie e aiutandole anche economicamente. Lì c’è il «Giardino degli angeli»: ogni tomba ha una piccola lapide con la data della sepoltura. Non c’è nessun nome.

E dopo la 20esima settimana, cosa succede? Una prima circolare dell’allora ministro della Sanità Donat Cattin (era il 1988, confluito poi nel 1990 nel Dpr 285) chiedeva la separazione dei resti dei bambini morti prima della 28esima settimana dalle «parti anatomiche ». Il Dpr prevede che i familiari possano richiedere i resti. In ogni caso gli ospedali devono tumularli, così in genere stipulano convenzioni per la raccolta, la conservazione, il trasporto e l’inumazione. Nelle nostre convenzioni noi interveniamo con la sepoltura periodica, una volta o due al mese.

L’associazione fa differenza tra aborti spontanei e interruzioni volontarie di gravidanza?

No, noi non chiediamo nulla.

In questi giorni molti hanno affermato che la pratica di seppellire i feti abortiti umilia le donne. È un’accusa ingiusta e dolorosa. Cosa ne pensa?

Non tutti riflettono bene su questa questione. Ogni morte prenatale consegna alla madre, al padre, alla famiglia e alla società dei resti mortali: un cadavere, anche se piccolo. Persino il diritto italiano attribuisce al concepito una personalità giuridica. Ebbene, questo cadavere ha diritto all’onore, non può essere disprezzato nei rifiuti. La sepoltura è un’opera di misericordia. E, aggiungo, non è espressione di civiltà ‘cattolica’, ma di tutte le civiltà. La civiltà nasce con l’onore ai defunti.

Anche le croci sulle tombe dei non nati sono state messi in discussione.

La croce, in verità, può essere considerata un simbolo universale. Ma certo fa riferimento al mondo cristiano, tanto più la croce del cimitero. Nelle nostre sepolture, proprio come estremo rispetto di tutte le sensibilità, non la mettiamo in evidenza. Nell’attuale situazione sociale e culturale questo tema è rovente, e noi come associazione non abbiamo come scopo principale la denuncia ma l’accompagnamento della famiglia perché i resti del bambino possano essere onorati. I resti mortali di un concepito non possono essere discriminati a seconda se la famiglia li richiede o no. Tutti hanno diritto all’onore della sepoltura, e a non essere disprezzati nella spazzatura. Questa si chiama civiltà.

 

La vera libertà delle donne. Attacchi a chi le aiuta a non abortire

 

 
 
Antonella Mariani venerdì 9 ottobre 2020

Secondo la nuova e più moderna teoria dell’autodeterminazione femminile, l’unico atto di libertà consentito a una donna in difficoltà per una gravidanza non voluta è l’aborto. Se invece accetta un piccolo aiuto economico messo a disposizione da un ente pubblico, cambia idea e arriva al parto, allora no, non è libera.

È ben strabico il ragionamento di coloro che ieri hanno violentemente attaccato la mozione del Consiglio comunale di Iseo e di altri sette paesi della Provincia bresciana che impegna la Giunta a stanziare un fondo per sostenere le donne intenzionate, per mancanza di mezzi materiali o gravi problemi psicologici o familiari, a interrompere la gravidanza, offrendo loro un’alternativa. Di più: il ragionamento non è solo strabico, è anche pericolosamente fuorilegge. Sì, fuorilegge. Perché la stessa legge 194/78, fin dal suo titolo (‘Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza’) stabilisce che lo Stato «tutela la vita umana dal suo inizio» e prevede che una struttura pubblica, come il consultorio familiare, contribuisca «a far superare le cause che potrebbero indurre la donna all’interruzione di gravidanza».

Eppure un blasonato quotidiano nazionale si è spinto a titolare «Donne pagate per non abortire. La crociata dei Comuni ‘pro life’», mentre la senatrice Monica Cirinnà, responsabile Diritti (ma quali? E di chi?) del Pd, alle agenzie di stampa ha affidato il seguente messaggio: «È l’ennesimo attacco alla libertà di scelta della donne, tanto più grave perché ‘mascherato’ da sussidio. (…) La scelta di diventare madre o no non si compra, ma deve restare affidata alla responsabilità e alla libertà della donna di autodeterminarsi senza costrizioni». Dunque, prevedere un aiuto (mai imposto, sempre su richiesta delle interessate) sarebbe creare una ‘costrizione’ o un ‘condizionamento’ nei confronti della ‘libera scelta’ della donna. Invece la situazione di estrema povertà che potrebbe indurre una madre a rinunciare a suo figlio no, non lo sarebbe. Sarebbe una condizione di libertà.

Un aiuto alla «maternità difficile» (così la definisce la Legge 194) può salvare una vita. Non è una ‘paga’ né un ‘premio’, né la sua entità (nel caso bresciano 160 euro al mese per 18 mesi), potrebbe fare veramente la differenza, contrariamente a quanto pensano i pasdaran dell’autodeterminazione femminile a senso unico. È piuttosto il suo significato simbolico di incoraggiamento, di ‘presa in carico’.

È come dire a una donna: non sei sola con i tuoi problemi, la tua città ti accompagna, tu e tuo figlio per noi contate. Non ci sfugge che 160 euro al mese non sono sufficienti per crescere un bambino. Serve un lavoro, servono gli asili, serve una famiglia vicina, una rete di supporto, una condivisione dei compiti tra i partner. Ma non cadiamo nella trappola del ‘benaltrismo’. Il sostegno alla ‘maternità difficile’ auspicato dai Comuni del Bresciano è semplicemente un segno importante di preferenza per la vita. Non sostituisce nessun provvedimento di contrasto alla miseria o di aiuto alla famiglia con figli, semmai affianca. E non è un attacco alla legge 194, come ha spiegato bene il sindaco di Iseo, Marco Ghitti. Anzi, aggiungiamo noi, è un suo rafforzamento. Perché legge, civiltà e umanità non prevedono che si rinunci a un figlio per povertà. Questo, almeno, non dovrebbe essere considerato ideologico, un’altra accusa gettata ieri in pieno volto agli amministratori degli otto Comuni del Bresciano.

Si potrebbe chiedere alle volontarie e ai volontari di Progetto Gemma – il programma di sostegno pre e post natale del Movimento per la Vita – da 5 lustri a fianco delle gravidanze indesiderate più ‘difficili’ quando davvero una donna incinta non è libera di scegliere e di ‘autodeterminarsi’. Risponderebbero che è ‘condizionata’ quando è poverissima, quando subisce pressioni per sbarazzarsi del figlio, quando non ha nessuno accanto, quando è fragile psicologicamente.

Allora sì, si può sentire costretta a scegliere l’aborto. Ma se qualcuno le tende la mano, allora riscopre la vera libertà, quella di dire sì alla vita. Come Giovanna, una 17enne che intervistammo nel 2019, in occasione dei 25 anni di Progetto Gemma: incinta di un compagno di classe, solo la professoressa di Scienze si accorse della sua disperazione e le parlò della possibilità di un aiuto economico. Giovanna aveva in tasca il certificato per l’aborto. Lo stracciò; adesso suo figlio ha 3 anni ed è la sua gioia. «Quei soldi mi hanno aiutata, certo. Ma più di tutto, sapere che qualcuno stava raccogliendo denaro per me, senza nemmeno conoscermi, mi ha fatto sentire più forte. Solo allora ho pensato che potevo farcela».