“Non tutti sanno che…”: bisogna ripensare il nostro modo di essere comunità

Tra le tante riflessioni su come ripartire dopo la quarantena causata dal Covid-19 nei primi mesi del 2020, mi sembra utile proporre questa intervista a don Roberto Repole, un sacerdote e teologo acuto, che propone di ripensare il nostro modo di essere comunità e individua alcuni punti scoperchiati dalla crisi appena vissuta… leggete (il grassetto è una mia scelta per sottolineare alcuni passaggi più incisivi) e, se vorrete, ne parleremo insieme…

Teologia – Dopo il COVID-19: la Chiesa è già fuori

Intervista a Roberto Repole. Il rischio di una teologia della pancia piena

a cura di PAOLO TOMASSONE (ne Il Regno 14/2020)

Quali sono i temi principali che l’emergenza COVID-19 ha posto alla Chiesa?

Ne abbiamo parlato con don Roberto Repole, docente di Teologia sistematica presso la Facoltà teologica dell’Italia settentrionale.

«Credo sia difficile dare un giudizio globale che riguarda tutta la Chiesa. Se guardiamo anche solo il caso italiano, mi pare che ci sia stata una recezione di questo fenomeno differenziata a seconda dei contesti; un conto per esempio è aver vissuto questa vicenda a Bergamo, Brescia, Milano o Torino, un altro è averla vissuta in altre nel Sud Italia meno colpito da questo fenomeno. Credo che l’emergenza COVID-19 abbia smascherato il fatto che la nostra struttura ecclesiale, soprattutto quella parrocchiale, risente ancora di modalità di vita e di espressione che certamente non sono più conformi al tempo che stiamo vivendo. Questa vicenda ha fatto sì che molte comunità cristiane si trovassero sguarnite (una volta che alcune delle esperienze normali, come quella del catechismo e della vita dei gruppi, erano interrotte), nel pensare e nell’immaginare altro.

Non sempre le strutture che manteniamo in piedi sono veramente vitali, perché vitale è un’effettiva vita comunitaria. Nel momento in cui non si è più potuto fare le cose di sempre, in alcuni ambiti si è potuto percepire anche una povertà strutturale.

Metterei in evidenza anche un altro tema: il rapporto della Chiesa con il mondo mediatico, soprattutto con quello dei new media. Come e in che misura questi strumenti di comunicazione sono delle nuove possibilità? E in che modo e in che misura possono rappresentare invece una trappola per ciò che la Chiesa è in ordine all’annuncio evangelico?

Un caso abbastanza evidente riguarda il fatto che in questo tempo quasi l’unica voce udita è stata quella del papa. Certamente una voce molto importante, decisiva e anche molto vitale per la realtà della Chiesa. Ma mi preme sottolineare che questo mondo mediatico, offrendo certi modelli, mostra una certa immagine di Chiesa. Per cui possiamo parlare molto anche di sinodalità di collegialità episcopale, ma poi dobbiamo fare i conti con il fatto che il mondo mediatico offre un’altra immagine ecclesiologica.

Parliamo di sinodalità, comunichiamo gerarchia

E su questo credo che ci sia una scarsa riflessione sul piano pratico ed ecclesiale, e forse anche una scarsa riflessione di tipo ecclesiologico. È un tema che non abbiamo ancora preso in sufficiente considerazione. Oggi, a dispetto di una visione più sinodale della Chiesa e più collegiale del ministero, il rischio è che il modello mediatico, quello della persona singola che in qualche modo diventa leader, possa segnare fortemente anche la visione della Chiesa».

– Questa pandemia pone dunque delle domande alla teologia?

«Una prima domanda concerne la capacità che la teologia ha avuto e ha di parlare in maniera appropriata all’interno del mondo attuale – un mondo segnato evidentemente dallo sviluppo scientifico e tecnico, con tutto il bene e il bello che questo porta con sé – della finitudine creaturale. Mi sembra che questa occasione abbia smascherato la fatica del mondo attuale a fare i conti con la finitudine, ma forse anche la fatica che la stessa teologia ha ancora a elaborare in maniera appropriata ed evangelica questo tema.

In questi giorni ho riflettuto anche sul fatto che questa è la prima volta, dopo i drammatici eventi della Seconda guerra mondiale, che nel mondo occidentale si rifanno i conti con il dolore, con la sofferenza, con la precarietà e in maniera anche un po’ brutale con la morte. Ci sembra che alcuni temi sorgano adesso, ma forse questa è un’occasione anzitutto per vedere ciò che dal mondo occidentale, da una teologia fatta da “teologi con la pancia piena”, non siamo in grado di vedere sempre.

Questi sono dei temi dell’umanità, soprattutto in certe parti del mondo. Ci sono costantemente delle epidemie delle quali qui da noi non si tiene conto e di cui, mi verrebbe da dire, non tiene conto neanche la teologia. Cioè, la nostra teologia, che certamente deve essere segnata dal contesto occidentale in cui è fatta, è davvero una teologia capace di esprimere, almeno dal punto di vista antropologico, delle tematiche che non coinvolgano soltanto gli uomini e le donne occidentali ma tutta l’umanità?

Poi, sulla base della sfida di questa pandemia, credo che si evidenzi la fatica che noi abbiamo a parlare ancora della provvidenza di Dio. Perché da un lato alcuni schemi teologici vecchi non sono capaci di soddisfare il nostro modo di pensare la presenza di Dio in un contesto, per esempio, che viene chiamato di disincanto del mondo, di sviluppo scientifico e di sviluppo tecnologico.

Tuttavia non abbiamo ancora elaborato un modo di dire come dentro questo mondo, segnato dallo sviluppo scientifico e tecnico, Dio è presente, Dio non è il “grande assente” della storia. Certe teologie potrebbero qualche volta addirittura dare il sospetto che, pur parlando di Dio, se ne parli come di un assente. Forse attraverso la vicenda della pandemia si evidenzia la mancata centralità del tema escatologico nella teologia cristiana, soprattutto di un escatologico che davvero parta dal risorto vivente come colui che è capace di esprimere, di portare e di offrire il compimento dell’umano. Penso che spetti alla teologia di ritornare a rivisitare questi temi non semplicemente come dei capitoli delle tante questioni teologiche, ma come uno spettro attraverso cui pensare la nostra fede e offrire una fede pensata».

Ridurre tutto a un fatto individuale

– Anche a motivo del dibattito interno alla Chiesa sulla celebrazione o meno della messa con il pubblico, abbiamo assistito a una prevalenza della figura sacramentale della Chiesa. È necessario un ripensamento rispetto alle posizioni attuali?

«Più che un ripensamento sarebbe necessario un riposizionamento. Credo che la vicenda attuale abbia messo in luce come troppo spesso la celebrazione dei sacramenti sia il tutto della vicenda ecclesiale e non un “vertice” che è tale perché sotto c’è qualcosa, ci sono per esempio un ascolto autentico e serio della Scrittura e un’esperienza di preghiera personale e comunitaria.

Mi pare che questa vicenda abbia messo in evidenza come la celebrazione di alcuni sacramenti appaia come il tutto della vicenda ecclesiale, sotto il quale non c’è niente, e qualche volta anche che del sacramento si ha ancora una visione oggettivistica. Per esempio, non è parso evidente nella nostra vita ecclesiale che l’eucaristia non la si può pensare riducendola all’ostia e riducendo la comunione a un fatto individuale, ma che appunto la teologia è per la Chiesa e che c’è un nesso profondo tra corpo eucaristico e corpo ecclesiale.

Mi sembrano concetti che nella teologia sono stati abbondantemente riscoperti ma forse si è manifestata qui la grande distanza tra ciò che chiamiamo pastorale e ciò che chiamiamo teologia, con il pericolo di non sapere più a volte che cosa facciamo quando facciamo pastorale e di non cogliere a sufficienza l’importanza e la decisività di un pensiero teologico quando è autentico, vero ed ecclesiale per il vissuto della Chiesa».

– Come cambia il ruolo del popolo di Dio rispetto alla gerarchia? Penso ad esempio al fatto che i medici e gli infermieri si sono necessariamente sostituiti ai sacerdoti nell’accompagnare spiritualmente i pazienti ricoverati nei reparti COVID degli ospedali.

«Questa vicenda ha manifestato delle potenzialità che una certa visione teologica, sulla base del concilio Vaticano II e della sua recezione che c’è stata in teologia, ha già sviluppato. Potremmo dire che la missione della Chiesa, in tutte le sue forme, non può essere appannaggio soltanto di qualche soggetto ecclesiale – i preti, i vescovi, le religiose o i religiosi – ma è un fatto che concerne la totalità del popolo di Dio nella molteplicità dei carismi.

Mi viene da dire provocatoriamente: ma soltanto in questo periodo medici e infermieri cristiani, che vivono il loro essere medici e infermieri come cristiani, possono esprimere la vicinanza della Chiesa e attraverso questa vicinanza la stessa vicinanza di Dio, oppure anche in altri contesti?

Forse ciò che è avvenuto adesso manifesta ciò che normalmente accade e su cui però non pensiamo a sufficienza. Noi oggi parliamo spesso di una Chiesa in uscita pensando che a uscire debbano essere ancora una volta vescovi, preti e religiosi, quando forse si tratterebbe di pensare che la Chiesa è già fuori là dove vivono delle cristiane e dei cristiani laici che dall’interno delle loro professioni, delle loro competenze e delle loro relazioni vitali sono la Chiesa che si rende presente dentro questo mondo.

Forse in questo caso il COVID può rappresentare l’opportunità per riscoprire qualcosa che non deve essere perso con la sua fine (che tutti ovviamente auspichiamo…)».